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Quando si parla di videogiochi bisogna fare i conti con una paura profonda e profondamente radicata, la paura cioè che i videogiochi ci sottraggano alla realtà. È una paura motivata, perché alla base del loro successo c’è proprio la loro superiorità rispetto alle nostre vite fisiche: come dice fin dal titolo del suo libro più famoso la game designer Jane McGonigal “Reality is broken”, la realtà è rotta. Giochiamo perché entriamo in un mondo meno ingiusto e meno sbagliato, un mondo in cui i nostri sforzi vengono ricompensati e le regole sono chiare, anche se spesso nascoste. Un mondo in cui l’impegno e la costanza vengono premiati e la bravura resa evidente, a prescindere dalle condizioni di partenza.
Questo è stato vero più che mai durante il lockdown per il coronavirus: i videogiochi sono stati per milioni di persone una via di fuga dalle proprie case, dall’incertezza, dal tutto chiuso e tutto proibito. E proprio in questo periodo abbiamo però capito che questa paura non è motivata, perché, come ha spiegato bene Alessandro Baricco:
Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo “ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali”, quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell’intelligenza.
Vale per tutto, ma vale in particolare per i videogiochi, perché le esperienze digitali sono un’alternativa desiderabile alle esperienze reali solo quando queste ultime sono progettate male o, come nel caso del contenimento di un’epidemia, impossibili. Vedi per esempio il concerto di Travis Scott in Fortnite, con 12 milioni di partecipanti: un successo incredibile, impossibile pensare a numeri simili per un concerto in carne e ossa. Questo significa smettere di desiderarlo? Al contrario. Significa solo una maggiore sensibilità alla qualità dell’esperienza. Una maggiore sensibilità sviluppata da due miliardi e mezzo di persone, uomini e donne, di tutte le età.
Perché amiamo giocare
La caratteristica più interessante del gioco (e non solo del videogioco) è l’autotelia, cioè la soddisfazione intrinseca. Questo non vuol dire che non si giochi anche per vincere o per completare o migliorare il proprio status - si pensi per esempio alla caccia di Pokemon Go o alle formazioni di FIFA -, vuol dire che l’esperienza di gioco è soddisfacente in sé.
A questo punto nella coscienza del marketer e del comunicatore dovrebbero suonare non una ma mille campanelle: senza per forza arrivare a progettare le esperienze di comunicazione e acquisto come se fossero un gioco, possibilità comunque alla nostra portata, la lezione del gaming è questa. L’intero customer journey dev’essere un’esperienza autotelica, cioè ogni singolo passaggio dev’essere gratificante, divertente, interessante. Deve incarnare l’esperienza sognata dalle persone che vogliamo raggiungere, persone che magari non compreranno nell’immediato un capo di Gucci, ma vestiranno con Gucci il loro avatar o si divertiranno a vedere le trasformazioni di un cantante sul palco di Sanremo. Vestirsi, trasformarsi, meravigliarsi: tre modi diversi di giocare nella realtà e nel digitale, tremila spunti diversi per arricchire la nostra comunicazione.
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