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Ci sono due parole che nell’uso corrente sembrano lontane ma a uno sguardo appena più attento svelano la propria radice comune: comune e comunità, anche nell’inglese community. Non è un caso che, agli albori della socialità digitale, si parlasse di online community per differenziarle da quelle basate su un luogo fisico, quello in cui si vive.
In Italia l’idea di appartenenza a un luogo è diversa e sfumata, rispetto alla cultura anglossassone: siamo legati a una città, a una terra, a una cultura, ma non sempre ci sentiamo parte di una comunità di abitanti, forse perché abbiamo legami sociali più forti - gli amici, la famiglia, i colleghi. Nella lingua, però, la radice comune rimane e in un mondo phygital torna a essere al centro anche delle strategie aziendali legate al punto vendita. Vale anche per chi gestisce quegli insiemi di punti vendita, e quindi di esperienze, che sono i centri commerciali. Chi li gestisce i centri commerciali deve affiancare alla gestione di un business immobiliare la capacità di offrire e produrre lo show che i visitatori desiderano trovare, vera chiave di volta per il futuro.
I mercati sono divertimenti
Nel 1999 il Cluetrain Manifesto rivoluziona il modo di vedere le relazioni tra aziende e clienti, ricordando che “i mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici”. Mercato non è una parola che indica solo l’insieme delle merci e degli scambi, ma anche un luogo fisico. Che sia il mercato tipico del Sud e dell’Oriente o il market di estrazione anglosassone, l’idea di conversazione e di umanità attraversa tutte le esperienze di commercio, prima, durante e dopo. E andare al mercato, ancora oggi, è un’esperienza in sé: rumori, colori, sapori, grida e varietà. I supermercati hanno preso questa strada, ispirati e spinti da Eataly, adesso è il turno dei mall, che possono attrarre i visitatori e divertirli da altre destinazioni offrendo qualcosa di più e di diverso dallo shopping.
Per Doug Stephens, in Resurrecting Retail, il centro commerciale dovrebbe essere gestito come se fosse una community vivace, un editore che produce eventi e incontri con un nuovo modello di ricavi, un’esperienza continua difficile da perdersi e sempre desiderabile. E un luogo vero, interessante in sé, anche dal punto di vista architettonico e urbanistico, come piazza Gae Aulenti a Milano.
E invece?
Troppo spesso, invece, il centro commerciale o l’outlet sembrano aver perso il passo con il cambiamento dei consumatori. Sono fuori dal Comune, ma non in senso di straordinari, nel senso di lontani, diversi, disumanizzati. Non luoghi circondati dal nulla o dall’asfalto. Come scrive Retail Focus “Guardandoci indietro, possiamo dire che il boom dei centri commerciali negli anni ’80 e ’90 non ha sempre dato un contributo positivo ai centri delle nostre città”.
Diverso il discorso, almeno in Italia, se guardiamo al contributo dei centri commerciali immersi nella vita di quartiere e insieme parte del rinnovamento, come a Milano il Portello o CityLife, hanno già dimostrato prima della pandemia il proprio potenziale allo sviluppo di una città multicentrica e multipotenziale, dove si smette di “andare in centro” per fare acquisti, restando vicino a casa e godendosi il proprio quartiere. All’improvviso succedono cose interessanti all’angolo di casa: non solo acquisti, ma feste, giochi, scoperte e incontri.
La differenza, oltre al contenuto, la fa anche la comunicazione, spesso mancante. Un centro commerciale deve essere un brand in sé, con un'identità definita e un’immagine coordinata, un sito utile, un’app che aiuti le persone a muoversi e ad approfittare di tutte le possibilità e, soprattutto, una serie di servizi capaci di potenziare le strategie retail dei vari punti vendita, in particolare in franchising. Acquisti, facilitazione di pagamenti, consegne, resi, raccolte punti, per lavorare alla fidelizzazione a un luogo che vada oltre i brand che lo popolano.
Solo negozi nei nuovi centri commerciali?
Anche per questo i centri commerciali di nuova generazione puntano a diventare centri di servizi e di intrattenimento. Forbes racconta che la risposta dei proprietari di spazi statunitensi alla crisi dei centri commerciali è “un completo capovolgimento del tipo di affittuari che ti aspettavi di trovare”. Sempre Forbes dice che “i negozi diventano sempre più multicanale e i centri commerciali sono nella posizione giusta per fare lo stesso”, magari inserendosi nella riprogettazione urbanistica della città in 15 minuti.
È per questo che il Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali pensa di proporre al governo di accogliere, a fianco di negozi e punti vendita, servizi di assistenza sanitaria, incubatori, spazi di coworking, servizi per la digitalizzazione dei negozi, punti di ricarica per le auto elettriche e, insieme ai tipici fast food, ristorazione di qualità: Roadhouse e Peck, per poter scegliere a seconda del desiderio del momento.
Per dirla ancora con le parole di Doug Stephens il centro commerciale del futuro deve diventare il nuovo centro del Comune e quindi della comunità che ci si riconosce. “Quando ero un teenager, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli’80, i centri commerciali erano di fatto per noi la versione analogica di Internet”.
Tornando al Cluetrain Manifesto “abbiamo qualche idea anche per voi: alcuni nuovi strumenti, alcuni nuovi servizi. Roba che pagheremmo volentieri. Avete un minuto?” Nell’era phygital possiamo integrare i due aspetti e tornare a progettare spazi commerciali pieni di vita.
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